Nel mezzo del cammin di nostra vita, quando la soglia dei 40 anni si avvicina oramai incombente, succede che ti ritrovi più spesso di prima a fare cose come voltarti indietro, aprire vecchi album, cercare compagni delle elementari su Facebook per organizzare una bella cena di classe. A dire il vero io sono un nostalgico fin dalla tenera età, quindi non mi preoccupo troppo di questi “acciacchi” malinconici, e sono sempre stato convinto, senza scomodare il buon Cicerone del De Oratore, che per guidare bene è assolutamente necessario regolare correttamente gli specchietti retrovisori e saper buttare uno sguardo al passato. Questo ovviamente senza perdere di vista la lunga strada che ancora ci si apre dinnanzi.

Da tutto questo nasce il mio piccolo progetto “Nascita di un’Accademia“: una serie di amichevoli interviste a quelli che potremmo definire i “personaggi” dello spettacolo che ha come protagonista la Civica Accademia d’Arte Drammatica Nico Pepe di Udine.
Spero possa essere utile e di gradito, non solo a me, ma a chiunque abbia la voglia di leggere le mie interviste per scoprire una storia non così nota.
Quindi cominciamo alla grande con uno dei ruoli principali della pièce, l’illustrissimo ac reverendissimo direttore Claudio de Maglio: specchietti ben regolati, casco allacciato e luci accese anche di giorno!
Bene Claudio, iniziamo. La storia recente dell’Accademia (parlo da dopo la mia ammissione come allievo) mi è nota, ed è la storia di una struttura in costante crescita ma tutto sommato già a regime, ma di ciò che viene prima, di come è nata la Civica Accademia d’Arte Nico Pepe conosco poco o nulla, che ne dici di partire quindi dal principio?
Beh, come è nata la faccenda vuoi sapere? L’origine di tutto, il primo passo per cui il comune ha avuto a che fare con una scuola di teatro è dato da Nico Pepe. Quando è rientrato qui a Udine dopo l’esperienza con Strehler, in pensione dal Piccolo Teatro, ha trovato come sua specificità il fatto di voler fondare un teatro professionale in lingua friulana: c’era un’attenzione nuova nei confronti del friulano e lui aveva capito che lì c’era uno “spazio” all’interno delle dinamiche teatrali già in atto all’epoca; un’epoca piuttosto segnata da rivalità.
Di che anni parliamo?
Parliamo dei primi anni ’80, 82, 83 più o meno quegli anni li, non vorrei sbagliarmi ma il periodo è quello. Mi ricordo perché lui stesso mi chiamò in questa sede a tenere un breve corso di tecniche del movimento. Io avevo una compagnia teatrale che si chiamava “Teatro all’Aria” e avevamo sede proprio qui accanto, di fronte all’Accademia, dove adesso c’è il Tribunale. Era uno spazio bellissimo, ex sede del museo di storia naturale abbandonato dopo il terremoto, un posto che ha segnato un’epoca gloriosa in città, raccogliendo artisti giovani che si stavano formando e che hanno poi dato vita a carriere importanti. Nico Pepe aveva fatto costruire nell’attuale sala G un piccolo palco, più da Commedia dell’Arte come dimensioni, ma aveva fondale quinte sipario e tutto… Lui insegnava lì. Quella era l’unica sala. Io poi con piglio iconoclasta lo ribattezzai “teatrino di Barbie” Gli utenti della “Civica Scuola di Recitazione per il teatro in friulano” (si chiamava così allora) era un gruppo di una quarantina di persone, molti provenienti dalle esperienze delle filodrammatiche, di varie fasce d’età. La scuola funzionò per tre anni (ma senza riammissioni di nuove annualità) e quel gruppo si legò a Pepe con molto amore e devozione. Da quell’esperienza è nata una compagnia dilettantesca di un livello più che buono che è il Gruppo Teatrale della Loggia, oggi ancora vivo e vivace.
Ma di che volume di ore parliamo?
Allora, in quel momento, lavoravano in orario per lo più pomeridiano serale, tre o quattro ore al giorno, mi pare tutti i giorni. Su questo ero poco informato perché io fui chiamato solo a tenere quel breve corso. Fu Nico Pepe stesso a chiamarmi, era un uomo curioso. Lì conobbi il gruppo mentre lui lo conoscevo già dai suoi interventi nel dibattito culturale cittadino. Fu proprio lui in quel periodo che mi insegnò Pantalone, mi diede i rudimenti, mi passò il suo modo di farlo… Che fascino aveva la maschera, ma sarebbe passato ancora molto tempo prima che io decidessi di occuparmene, recuperare e approfondire
Tu eri già un attore formato?
Si avevo già intrapreso la mia formazione, avevo anche già seguito Ferruccio Soleri fino in Germania, ma Pantalone me lo passò lui.
E poi tu l’hai passata a me al mio secondo anno (non solo a me ahimè), e questa “discendenza” mi riempì di tale orgoglio che allora, come ricorderai, estrassi le due foto di Nico Pepe dal suo libro “Pantalone” e stampatele le incorniciai e le appesi dove ancora oggi stanno, nel corridoio della segreteria.
Certo, ricordo bene che le hai messe tu li. E ancora stanno! Adesso possiamo far vedere a tutti chi era Nico Pepe, la memoria si perde facilmente, poi soprattutto gli attori, nessuno se li ricorda…
Ma come si è passati da un corso di teatro in friulano ad una Accademia?
Quell’esperienza finì male con il comune, non so bene perché, ma so che ad un certo punto Nico Pepe trovò addirittura la serratura cambiata. Insomma si chiuse questa esperienza, così in modo non felicissimo. Il saggio finale era stato Lisistrata di Aristofane, tradotta dal greco in friulano da Maria Tore Barbina. Il gruppo aveva anche prodotto un’altro spettacolo che portarono molto in giro, un po dappertutto in Friuli “Il misteri de crôs” una specie di lauda drammatica scritta da Alviero Negro, un autore friulano molto stimato. Insomma quella compagnia si mobilitò parecchio e grazie all’imprinting con Nico Pepe tuttora esiste anche se in contesto amatoriale. L’idea della formazione di un teatro Stabile in lingua Friulana è stata più volte recuperata e poi di nuovo sommersa per evidenti motivi di diffusione pratica, costi di gestione, ecc… ecc… una questione politica in cui non mi addentro.
Torniamo al dopo Nico Pepe…
Si. Poco tempo dopo la morte di Pepe avvenuta nel 1987 nacque la “Civica Accademia d’Arte Drammatica Nico Pepe” affidata a Federico Esposito, un uomo delle lotte teatrali degli anni sessanta, diventato critico del Gazzettino dopo esser andato in pensione. Credo avesse lavorato in banca, benché si fosse sempre occupato di teatro. Non so molto di lui perché come Pepe faceva parte di una generazione e di dinamiche che non potevo conoscere se non per sentito dire. So che aveva anche firmato delle regie di opera lirica in Friuli e credo fosse stato iscritto alla Silvio D’Amico ma parliamo della fine degli anni trenta del XX secolo, più o meno.
Ma lui che legami aveva con Nico Pepe?
Era un suo amico. Quindi il comune decise di ripartire con quest’iniziativa dal nome molto roboante che era “Civica Accademia d’Arte Drammatica Nico Pepe”, dedicata a lui, diretta da Federico Esposito. La scuola veniva direttamente gestita dal comune in prima persona. Una bella cosa ma che aveva in sé molte difficoltà di ordine burocratico.
Quanto durò questa nuova realtà?
Questo episodio dura per tre anni dal 1988 al 1991. Il fatto fondamentale è che nell’Accademia viene immesso un nuovo gruppo ogni anno ma con un solo spazio di lavoro e una sala segreteria/direzione i problemi logistici aumentano ogni anno! Se dunque il primo corso lavorava inizialmente tra le sedici e le venti, quattro ore al giorno tutti i giorni, man mano che arrivò un altro primo anno e poi un altro ancora il tempo e le giornate di frequenza si assottigliavano per evidenti sovrapposizioni. Fu allora che fui chiamato a insegnare per un tempo di qualche settimana e mi resi conto un po’ della cosa, cioè che la struttura era molto strana e forse il comune stesso non si era reso conto di cosa aveva avviato. Era una cosa dal grande valore civile per una città “teatrale” come Udine ma contemporaneamente richiedeva interventi adeguati e all’altezza di un compito così nobile come quello della formazione… già poco frequentato in Italia tra l’altro, almeno a livello dei dibattiti sulle pratiche… certo i Dams stavano preparando il terreno ma era teorico…
Ma tu come diventi direttore?
Dopo due anni, due anni e mezzo dall’inizio di questa iniziativa, mi chiamò l’assessore alla cultura dell’epoca, e mi chiese cosa ne pensavo.
E tu?
Beh io in quel momento lavoravo in giro, ero nella compagnia di Jean Paul Denizon, con Maril Van den Broek, era una compagnia plurilinguistica con attori che venivano da vari paesi: dal Cile come dall’Arabia, da tutto il mondo insomma. Stavo molto bene, lavoravo soprattutto a Milano e a Parigi, poi anche a Roma con tournée in Umbria, insomma facevo una cosa che mi piaceva molto. Eppure io ho sempre avuto il pallino anche per la pedagogia dell’attore. Infatti pur lavorando spesso fuori città non avevo mai smesso la mia attività di docente in corsi e seminari
Torniamo all’assessore, cosa gli hai risposto?
All’assessore risposi: “guardi, per come è organizzata, non ha obiettivi chiari e si rischia l’equivoco con un nome così… non si va da nessuna parte, nel senso che così è troppo poco. Il nome è infatti roboante, cita un’accademia e in Italia di altre accademie c’è solo la Silvio D’amico” E lui mi disse “Ma se se ne occupasse lei?” e io risposi “guardi, se lei mi da l’Aspirina per un moribondo non si può far nulla.” Insomma solo avendo dei mezzi, potendo riorganizzarla se ne sarebbe potuto far qualcosa di buono.
E lui?
Non ebbi nessuna risposta. Passarono i mesi e io accettai un altro lavoro con un gruppo internazionale, ancora con Maril Van den Broek: fummo presi da un regista viennese. Dovevamo fare questo spettacolo a Vienna, Praga, Roma… ma il dicembre prima di questa mia partenza per Vienna (lì era la base della compagnia) stavo facendo “La vita non è un film di Doris Day” di Mino Bellei, ero truccato da signora soglia dei 70 anni, era dicembre, avevamo lo spettacolo al Palamostre, e arriva una telefonata (ancora non c’erano i cellulari) al telefono fisso del Palamostre, parliamo del 1991… “Dovrebbe venire uno del Gazzettino a fotografarla perché lei è stato nominato dalla giunta comunale nuovo direttore della Civica Accademia d’Arte Drammatica Nico Pepe!”
Una scena da film! E tu?
E io, ero appunto vestito da Amalia, uno dei tre personaggi femminili della pièce e dovetti un po’ struccarmi e mettermi un cappottone nero al volo. Così nella mia prima foto sul giornale da direttore, il giorno dopo, sembro un maniaco al Central Park, con questo cappotto nero… mi ero struccato ma insomma ero comunque abbastanza inquietante.
Voglio assolutamente vedere questa foto, incorniciarla e appenderla nel corridoio della segreteria tra le due di Nico Pepe!
C’è sicuramente da qualche parte, temo… ma spero che quel “faldone” non si trovi mai!
Bell’inizio direi, ma poi?
Io subentravo da gennaio 1992, avevo già accettato Vienna. Il comunque mi disse che non potevo ammettere nuovi allievi perché era troppo tardi, e io accettai di portare avanti quelli che erano in corso. Avevo però già delle persone che mi seguivano ancora dal Palio, con l’idea di fare una compagnia più avanti, allora decisi di ammetterli come uditori. E c’erano persone come Nicoletta Oscuro, e altri che poi hanno fatto questa professione…
Il gruppo della foto appesa fuori dell’ufficio di Marco, in bianco e nero, dove tu hai i capelli lunghi?
Si, no… non proprio: quella viene poco dopo, è la foto di un saggio. Ma il primo saggio che facciamo, lo fa Somaglino, “Storia della casa del nespolo” tratto da “I Malavoglia” di Verga in Piazza San Giacomo, perché io quell’anno stavo appunto lavorando a Vienna, Praga e Roma. Facevo così, due settimane a Vienna e poi venivo qua tre o quattro giorni. Poi tornavo due settimane la, perché non avevo proprio il tempo pratico, oramai avevo accettato quel lavoro, avevo firmato il contratto.
Tornavi giusto per coordinare?
Si esatto. Ma la cosa interessante viene dopo. Una volta passata questa prima parte, il secondo semestre, mi arriva la notizia da parte del comune che per una svista avevano dimenticato di finanziare l’Accademia.
Non posso crederci…
Nemmeno noi, e quindi ci siamo trovati ad un certo punto totalmente senza più la possibilità di fare nulla, cioè la cosa doveva essere chiusa. A me, nella mia ingenuità, forse assurda ingenuità e passione, mi venne in mente di dire subito “Ma scusate, la continuità didattica è sancita dalla Costituzione. Noi andiamo avanti lo stesso senza soldi”. Chiamai i docenti dell’epoca, tra cui c’erano appunto il buon Paolo Cecere, Angela Felice, Valter Colle e gli altri, e decidiamo di continuare.
E con la sede, come fate, vi lasciavano i locali?
Si la sede era qui e ce la lasciarono. Per cui noi ci riunimmo e decidemmo tutti insieme di andare avanti senza soldi e di fare partire però anche una, diciamo, una diffusione di questa informazione dappertutto. Io mi ricordo lavoravo già alla Sapienza a Roma, tenevo dei corsi all’università, e anche al Centro Sperimentale di Cinematografia, quell’anno. Quindi cominciai a spargere la notizia in quelle realtà e tra i colleghi, Marco Sgrosso ed Elena Bucci, eccetera. “Se volete darci un supporto, mandate un telegramma al sindaco, dicendo di non far morire questa iniziativa, questa realtà” che stava appena nascendo. Devo dire che ne arrivarono un sacco, un po’ da tutta Italia, da vari colleghi, amici e altre realtà, che dicevano “Non chiudete!” Noi da parte nostra attivammo una specie di sollevazione ininterrotta, con continui incontri pubblici.
Ma le lezione continuavano?
Certo, tutto questo continuando a lavorare e a fare lezione come se niente fosse, senza essere pagati. Alla fine dovettero rifinanziare. Ma la cosa interessante è che alcuni anni dopo qualcuno mi disse “Claudio ma non ti eri accorto? Hanno fatto apposta, ti avevano nominato direttore dicendo tanto un giovane si rifà una verginità…” perché in realtà la volevano chiudere.
Ti hanno nominato capitano del Titanic già sapendo dell’iceberg?
Esatto, però l’iceberg l’abbiamo sciolto noi prima che ci affondasse. Ma la cosa bella è che ci siamo “occupati di” invece di “occupare” e basta, e ha funzionato. Ha funzionato, l’ingenuità in un certo senso ha pagato. Perché se io l’avessi saputo, o avessi avuto l’intelligenza, quella della mente, del cervello, non del cuore, che ti fa capire subito, avrei detto “ma andate… io mi riprendo il mio lavoro fuori” e non avrei più portato avanti la battaglia.
Allora è vero che a volte è meglio non sapere, non capire.
O forse anche se si sa o si suppone comportarsi come se… stando ai fatti e non alle supposizioni, insomma senza dare nulla per scontato. Da li poi è partito un percorso molto lento e veramente lunghissimo, pieno anche di intoppi e di ostacoli che però ha alimentato il processo che anche tu poi hai conosciuto e di cui hai fatto e fai parte.
È chiaro che inizialmente il nostro targhet di allievi era molto nord-est, al massimo triveneto; ma poi pian piano, lavorando sodo, e tenendo alta la qualità e amplificando il percorso verso quel disegno o progetto che pareva utopico, abbiamo conquistato una risonanza nazionale. Sai la prima cosa fondamentale è stata portare a un regime di ore corretto i tre corsi. Quando ho preso in mano l’Accademia, il terzo anno non faceva neanche tutti i giorni, e nemmeno tutto il giorno: le lezioni coprivano mezza giornata.
In più non c’erano gli spazi per i tre corsi, quindi un secondo discorso ha riguardato spazi, da reinventare totalmente. Pian piano siamo riusciti a conquistare tutto il piano di sopra, e poi piano piano la palestra accanto… ma magari questo sarà argomento dei prossimi capitoli che potremmo affrontare, che ne dici?
Beh, se inizi a fare le domande tu, direi proprio che è il momento di chiudere. Ti ringrazio davvero di avermi raccontato queste cose, credo sia importante che gli allievi, “vecchi” e “giovani”, sappiano cosa li ha preceduti e in qualche modo cosa ha permesso di far crescere e vivere la realtà che li ha formati.
Allora alla prossima intervista.
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