Prosegue il mio informale viaggio nella storia della Civica Accademia d’Arte Drammatica Nico Pepe ed eccomi a condividere con voi il secondo capitolo di “Nascita di un’Accademia”. Dopo aver parlato con Claudio De Maglio, attuale direttore, eccomi a fare due chiacchiere amichevoli con Nicoletta Oscuro, uditrice prima, e poi ufficialmente allieva del primo corso della “nuova” gestione alla Nico Pepe. Nella foto è la servetta Elisabetta, ritratta al fianco di Ludovico (Massimo Somaglino) l’innamorato rivoluzionario con il quale facevano la rivoluzione in “La patria del Friuli”, un canovaccio di commedia dell’arte messo in scena con la regia di Eugenio Allegri.
Ma andiamo per ordine, e chiediamo a Nicoletta di raccontarci meglio, anche se ho scelto di non dare un normale ordine alla pubblicazione delle interviste: saltellerò da un testimone all’altro senza dare alla sequenza, nessun valore di importanza. Un ordine “segreto” in realtà c’è: a chi ha un emisfero sinistro dominante l’arduo compito di scoprirlo.


Eccomi Nicoletta, allora, tu sei entrata in accademia appena de Maglio è stato incaricato di dirigerla, ma dato che il comune non gli ha permesso subito di ammettere nuovi allievi, sei stata affiancata come uditrice agli allievi già studenti. Questo mi fa intuire che conoscessi Claudio da prima che diventasse l’eccellentissimum ac reverendissimum direttore.

Si, l’ho conosciuto che avevo 16 anni. Volevo fare Teatro e sono andata ad una riunione per il Palio Teatrale Studentesco di Udine, una manifestazione che oggi è più viva che mai e che conta ben quarantacinque anni di storia, e insieme ad altri debosciati della mio Liceo Classico e del Liceo Scientifico abbiamo formato un gruppo interscolatico. Caludio ci ha coordinato per due anni, poi mi sono diplomata e non sono più riuscita ad uscirne: la malattia del teatro ormai mi aveva contagiata.

Conoscevi già la Civica Accademia Nico Pepe prima di essere ammessa come uditrice?

Sapevo quello che mi raccontava Claudio, ma in realtà davvero poco, non era molto conosciuta come scuola prima della sua direzione.

Quindi Nico Pepe non lo conoscevi, non lo hai mai incontrato?

Sinceramente no! Ho saputo molto prima chi fosse Peter Brook! Grazie a de Maglio a 18 anni sono andata a vedere la Tempesta di Brook prima a Milano e poi anche a Verona e quello è stato il colpo di grazia. Dopo quello spettacolo non ho più potuto pensare  ad altro se non al teatro, è stata davvero una folgorazione e non ringrazierò mai abbastanza Claudio per avermi fatto conoscere quel teatro li.

Raccontami un po’ della sede, della struttura di largo Ospedale Vecchio: come l’hai vista crescere e com’era all’inizio, quando hai iniziato a studiarci?

Dunque io sono entrata alla Nico Pepe, come hai detto, proprio all’inizio della direzione di Claudio e allora la struttura era molto più precaria di come è ora dal punto di vista logistico. Gli spazi erano ancora con una vecchia concezione. Nella Sala grande, (ora abbreviato in sala G) unica sala assieme a due stanzette al primo piano, c’era un orribile palchetto, davvero inutilizzabile. Ricordo molta plastica sui muri e che tutto aveva un’aria più fatiscente, ma il teatro si faceva eccome… in fondo come dice sempre Brook, lo so sono monotona sorry, per fare teatro bastano gli attori, il pubblico e una stanza… e se la stanza non c’è, si può fare all’aperto! Infatti lavoravamo tantissimo nel campetto da pallacanestro che c’era appena fuori dalla scuola, usando le impalcature, arrampicandoci ovunque, ricordo numeri acrobatici sul canestro… non so quanto tutto ciò fosse “a norma” ma erano altri anni e si faceva di tutto. Certo, ogni tanto si affacciava la custode a sbraitarci contro.

La custode?

Si, una tipa dai capelli rossi che sembrava uscita da un film di Almodovar. Viveva al piano di sopra, nella zona che non era dell’accademia all’ora, dove oggi c’è la segreteria. Credo che lei fosse la custode già da molti anni, messa li dal comune. Forse aveva un figlio, o una figlia, non ricordo bene, so solo che si affacciava alle finestre e ci urlava quando noi facevamo le prove fuori nel campetto… poi si c’è stata una riappacificazione… in fondo era innocua e appunto una nota di colore almodovariano. Chiedi a Nadia, credo che lei si ricordi.

Le chiederò, mi incuriosisce. Senti, ma tu hai per caso conservato articoli foto o altro materiale di quei primi anni?

Provo a cercare ma ho cambiato ben quattro case nel frattempo… credo che in segreteria siano più ordinati di me. Forse una foto, una sola, dovrei averla a casa di mia madre. Vediamo se la trovo.

Massimo Somaglino e Nicoletta Oscuro

Torniamo al tuo percorso accademico, come mai hai iniziato da uditrice?

Il primo anno in cui Claudio prese la direzione, non ricordo bene perché, ma non ci furono provini, non partì un nuovo primo anno, quindi i corsi proseguirono solo per gli allievi che già erano entrati ed erano al secondo e terzo anno. Claudio però decise comunque di aprire, ufficialmente solo per uditori, alcuni corsi ad allievi esterni per cui io feci una sorta di anno preliminare frequentando le lezioni di dizione, canto, recitazione, storia del teatro, danza, Mancini!!! Frequentai anche i seminari tematici… praticamente quasi tutto, compresi alcuni allestimenti e pure il saggio finale. Poi l’anno successivo mi sono iscritta al mio regolare primo anno di corso, ma avevo già una bella infarinatura ed è stato molto utile.

Insomma, una sorta di anno propedeutico ante litteram.

Esatto, e poi la cosa molto bella di quegli anni è che proprio perché la scuola stava “rinascendo” sotto la nuova direzione, aveva una struttura molto sperimentale anche nel percorso formativo, era quasi, ti dirò, più una bottega, eravamo pochi e venivamo seguiti molto. Abbiamo avuto l’opportunità di fare molte esperienze di scena, spettacoli, allestimenti dei più vari e pure una tournée in compagnia prima del diploma. Una roba ufo! Poi una cosa molto forte era che spesso, alcuni professionisti che erano anche nostri docenti, recitavano con noi, ma in ruoli complementari ai nostri e, per dirti, io ho avuto la fortuna di recitare al fianco di Riccardo Maranzana, Fernanda Hrelia, di fare Brecht accanto a Giovanni Battista Storti o di fare Colombina con Eugenio Allegri che faceva Arlecchino e appena diplomata far compagnia sostenuta dall’Accademia con uno spettacolo diretto da Eugenio dove recitavo insieme a Massimo Somaglino. Sono state esperienze forti, molto empiriche se vuoi, ma che mantengo tatuate addosso. Adesso la Scuola ha un respiro molto più internazionale, i ragazzi vanno ad Avignone, a Mosca ed è straordinario. Noi vivevamo un’altro tempo, un momento dove era forse più facile allestire uno spettacolo in 8, 10 attori e pensare di venderlo. E così è stato, ci siamo diplomati, abbiamo messo su una compagnia, l’Accademia ci ha dato un sostegno ed abbiamo portato in giro lo spettacolo in tutta Italia. 

Portaste in giro lo spettacolo del saggio?

No no, quello lo abbiamo fatto solo in doppia replica al Palamostre a novembre, ma dal febbraio successivo, dopo il diploma, siamo partiti con l’allestimento de “La patria del Friuli” il canovaccio con la regia di Allegri dove eravamo io, Mara Marinig, Maddalena Bolognesi, Federica San Severo e Giuliano Bonanni. Tutta la classe tranne Gregorio Grasselli, a cui si aggiunsero Massimo Somaglino e un attore argentino, Adrian Bustamante. Con questo spettacolo abbiamo girato un bel po’, sia in regione con l’ERT sia fuori.

Quale fu invece lo spettacolo di saggio?

Il nostro saggio di diploma è stato un lavoro sul mito di Prometeo e si intitolava “Quel che resta dell’Aquila” uno spettacolo folle da Eschilo a Gide, passando per i Monty Pithon… all’epoca ci furono belle recensioni, ne scrisse bene anche Mario Brandolin! Eravamo in scena solo noi del terzo anno perché per il saggio ci siamo imposti e abbiamo voluto fare lo spettacolo da soli, solo noi sei, per una volta volevamo fare uno spettacolo da soli, diretti certo, ma senza attori professionisti a farci da salvagente. Ed è stato un bellissimo lavoro. Abbiamo costruito lo spettacolo con moltissima autonomia creativa, abbiamo chiesto fiducia e l’abbiamo ottenuta e questo per noi è stato una bellissima chiusura del percorso. Si passava dal teatro classico al varietà, passando per il vaudeville e la danza contemporanea, ma tutto costruito da noi. E soprattutto andò in scena al Palamostre, che secondo me per la prosa è un Teatro molto più friendly del Nuovo Teatro Giovanni da Udine. Uno spettacolo senza confezione. Molto vitale.

Altri tempi…

Già, ma credo che ogni tempo abbia i suoi modi, quella volta ancora non era esploso il boom dei Premi e devo dire che si respirava un’aria un po’ meno competitiva, ma forse si tornerà ad un senso un po’ più comunitario del fare teatro, io almeno lo auspico. Per esempio tre anni fa, da un nucleo di noi nicopepini della vecchia guardia è nato  un Collettivo poi allargatosi a molti altri attori e registi del territorio e ad altre generazioni di nicopepini, si chiama  Teatro Sosta Urbana e programma una stagione da novembre a luglio, per diffondere il  teatro professionale e indipendente nella periferia della città.

Non posso che auspicare con te il ritorno di un maggiore senso comunitario di fare teatro, di una solidarietà tra attori che devo essere sincero, io non ho avuto la fortuna di conoscere e ne approfitto per chiederti cosa ricordi di quando l’Accademia, praticamente subito, ha rischiato di chiudere per mancanza di fondi e ha chiesto la solidarietà di amici, attori, pedagoghi da tutta Italia.

Ricordo che ogni tre o quattro mesi la scuola rischiava di chiudere, per cavilli burocratici, per opposizione di qualche dirigente… Ricordo che si stava sempre in bilico, che spesso abbiamo organizzato spettacoli per denunciare il fatto e difendere la struttura. Ricordo che ci sono stati docenti, anche stranieri, che all’inizio venivano a fare lezione ricevendo in cambio solo il rimborso delle spese di vitto e alloggio pur di sostenere il progetto della scuola. Ricordo che non avevamo costumi o scenografie e che spesso portavamo tutto noi… e vedo ancora dei miei vestiti indosso a qualche giovane allieva di questi anni e mi fa una tenerezza pazzesca, perché sento di essere stata, ed essere ancora, parte di un processo che continua. Sento di aver contribuito e aver messo il mio granellino per costruire qualcosa. È per questo che ogni volta che torno alla Nico Pepe mi sento a casa mia.

Che chiusa meravigliosa. Non voglio aggiungere altro, ti ringrazio davvero di cuore, e ti saluto. Grazie e a presto.