IL SOGNO DI UNA COSA
di Pier Paolo Pasolini
progetto e regia di Andrea Collavino
con Antonio Amore, Piera Ardessi, Katiuscia Bonato, Maria Giulia Campioli, Alex Cendron, Loredana De Luca, Serena Di Gregorio, Michela Facca, Guido Feruglio, Massimiliano Grazioli, Claudio Mariotti, Claudio Michelazzi, Silvia Piovan, Paolo Rossi, Francesca Sangalli
assistente alla regia Guido Feruglio
responsabile tecnico Stefano Revelant
tecnico luci Matteo Milanese
produzione Mittelfest 2005, CSSTeatro stabile di innovazione del FVG
in collaborazione con Civica Accademia d’Arte Drammatica “Nico Pepe” e con Provincia di Pordenone, Teatro Club Udine, Comune di Casarsa, Comune di San Vito al Tagliamento
foto Luca D’Agostino
IL SOGNO DI UNA COSA
Il Sogno di una messa in scena
Sono quindici anni, da quando ho letto per la prima volta Il sogno di una cosa, che penso che si dovrebbe fare uno spettacolo teatrale su questo romanzo. Nel romanzo ci sono dei ragazzi che vogliono sognare, anche se la propria condizione di braccianti non glielo permette, anche se il cerchio degli affetti che si stringe intorno a loro per evitargli lo scontro diretto con la realtà gli rammenta che il loro sogno non può andare oltre la ricerca di una vita decente. Il sogno è un mondo più giusto e lavoro per tutti, libertà, fraternità e uguaglianza. Il comunismo come idea che risolve. Invece arrivano le cocenti delusioni che si presentano chiaramente durante il periodo trascorso dai protagonisti nella Iugoslavia di Tito. Poi la vita li frena, li ridimensiona, ne lima gli slanci e loro, come tutti, trovano un lavoro, alla “Mangiarotti” come operai, o come contadini o come si vuole. Rientrano in quel giardino concluso che è il paese, la famiglia, la comunità. È la vita. Voglio raccontare la vita. Senza alcun giudizio sui protagonisti e con l’idea che il lato umano della vicenda superi quello politico. Voglio parlare di noi, e voglio farlo attraverso una storia che raccontasse dei nostri padri, di gente che ha vissuto vicino al Tagliamento. L’attualità del Sogno di una cosa sta nella grandezza dei personaggi che lo abitano. I paesi che vi sono descritti e i paesaggi e i colori della natura sono quelli del giardino dell’Eden, che è un luogo perfetto nella sua imperfezione dettata dal perpetuarsi di riti e stagioni sempre uguali e protetti dai padri. Il Tagliamento, fiume che contiene la ferita nell’etimo, dopo la seconda guerra stava per diventare confine tra due mondi. Il fatto che Ligugnana e Rosa e San Giovanni ci si trovassero sopra vorrà ben dire qualcosa. Il Nini e i suoi amici hanno sentito parlare della Iugoslavia e partono, senza passaporto, senza soldi senza alcuna sicurezza, come farebbero degli eroi, perché è in questo scoprire il nuovo che sta l’eroismo, contro la ponderatezza del vecchio saggio che trova rifugio nella terra madre, nel protrarsi di riti sempre uguali. La Iugoslavia nella testa dei protagonisti è una specie di paradiso se confrontata con la miseria dei loro paesi. E allora questi ragazzi pensano che il sogno che hanno possa materializzarsi. Partire dal confine con meta l’altro mondo, quello dei comunisti che sono tutti fratelli. Il rischio con questa storia è di parlarne come dall’alto della nostra disillusione e col cinismo di chi ha visto fallire quel sogno. Per tale motivo è necessario riscoprire parole che nel romanzo tornano spesso, ma che oggi hanno perso gran parte del loro significato, parole come “posto di lavoro”, “libertà”, “emigrazione”. Abbiamo una grande responsabilità, mettere in scena, e quindi far agire i personaggi di quello che io ritengo essere il romanzo più bello di Pasolini. Se fossi nato da un’ altra parte, a Roma o a Bologna, forse non sarebbe così e il paesaggio che si andrebbe formando dalle pagine del libro mi sembrerebbe irreale. Perché Il sogno di una cosa riguarda secondo me il vero, quello che c’ è e che si vorrebbe cambiare, e quello che non c’ è ma traspare dall’arrossarsi del viso, dalle parole che non si riescono a dire, e da quelle che si dicono senza pensarci prima. È quello che fa parte di noi e di cui ci vergogniamo perché lo confondiamo con l’ignoranza e che è rimasto tale e quale a distanza di cinquant’anni.
Andrea Collavino
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